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Alimentazione e cucina degli antichi veneziani trovarono le loro primarie risorse dalle lagune . Il commercio, all’ingrosso e al minuto, dei generi alimentari di prima necessità fu controllato dallo Stato, attraverso apposite magistrature, per esigere i dazi, controllare la buona qualità, evitare frodi ed accaparramenti. Sin dal 1173 a Venezia si può parlare di una “legge annonaria”, emanata dal Doge Sebastiano Ziani, su vino, cereali, carni, pesci, volatili, frutta, olio, ed innumerevoli sono le Corporazioni di mestiere delegate alla rivendita delle vittuarie.
Al mercato di Rialto137 giungono, portati da chioggiotti, Poveggiotti, abitanti dell’isola di Poveglia, e dai residenti della contrada di San Nicolò dei Mendicoli, freschissimi innumerevoli tipi di pesci come cefali, branzini, orate, sogliole, anguille, se di piccole dimensioni chiamate bisati, barboni, rombi, passere, di mare ma anche d’acqua dolce come trote, lucci, tinche e il pregiato sturione, spesso protagonista dei banchetti dei Dogi a Palazzo Ducale assieme ad ostriche crude, astici, grancevole, scampi, capesante e caviaro, caviale.
Ma come dimenticare Il bacalà - descritto già nel 1432 da Pietro Querini, patrizio tristemente naufragato con la sua cocca sulle coste delle isole Lofoten - e poi entrato nella gastronomia veneziana come bacalà mantecato, accompagnato spesso da una calda e cremosa polentina di mais, dono delle lontane Americhe.
Altrettanto ricca e varia la scelta disponibile sui banchi di vendita di becheri, macellai, e luganegheri, salsicciai: oltre a tagli pregiati di carne di manzo e di maiale, la gustosissima luganega, sorta di salsicciotto, semplice o muschiata, prosciutti, mortadelle, interiora di vario tipo, chiamate menuzzami, come trippe, doppion, intestino retto, fegato, polmone, cuore, lingua, cervella, spienza, milza, e ancora teste e piedi che potevano essere venduti crudi o cotti. Particolarmente apprezzate dai palati veneziani erano poi le carni fornite dalla selvaggina e dai volatili delle lagune , commerciate dall’arte dei galineri: folaghe, quaglie, fagiani, oche, colombi, pernici e màzori, germani reali .
Dagli orti delle isole i contadini trasportano verdure e frutta: erbagi generici, rape, fagioli, spinaci, cappucci, piselli (i bisi del celebre piatto di risi e bisi servito sulle tavole dogali), fave, asparagi, carciofi (articiochi, e le ancor oggi prelibate castraure dell’Isola di Sant’Erasmo, e ancora ciliegie, fichi, mele, pere, nespole, angurie e meloni, quest’ultimi portati in dono, sin dal XV secolo, ogni anno nel mese di agosto, dall’arte dei fruttaroli al Doge in segno di riconoscenza e da esso ricambiata con altrettanti doni commestibili.
All’arte duecentesca dei ternieri e poi a quella dei casaroli spettava la vendita del formaggio, anch’esso sottoposto a calmiere che ne tramanda le varie tipologie, spesso provenienti dalla Terraferma - piasentin, bressan, veronese, visentin, moriotto, morlaco - ma anche de Puglia, candiotto (da Candia, veneziana dal 1204 al 1669), da Cipro, d’Olanda , d’Inghilterra ed anche le fresche formagelle marzoline.
I dolci erano prerogativa degli scaleteri, abili produttori di marzapani, bussolai, ciambelle, storti, cialdoni, pignoccate, occhietti, e degli ancor oggi squisiti zaleti, di farina di granoturco condita con burro, uva passa, mandorle e pinoli. Famose anche le fave dolci, confezionate con farina di mandorle in occasione della ricorrenza dei defunti (2 novembre), in ricordo della distribuzione gratuita di fave lesse ai poveri da parte dei frati. E ancora frutta sciroppata e caramellata (el caramel) servita con rosoli, sciroppi, acque di cedro, e dal Settecento con caffè e cioccolata.
I veneziani erano pure grandi consumatori di vino, o meglio di vini, e le preferenze andavano a quelli rossi, di un bel colore acceso. Nei menù e negli inventari delle botteghe – malvasie, bastioni o magazeni, samarchi e samarcheti, così chiamati dalla loro insegna con il leone di san Marco, ma di infimo ordine, càneve, cantine o depositi di vino e nelle ottocentesche osterie – troviamo citati malvasia, dolce e garba, cioè secca, moscato, marzemino, malaga, aleatico, garganego da Verona, vin santo, vin da Cipro, dalla Puglia, da Smirne e pure il pregiatissimo picolit friulano oltre a molti altri ancora.
Certo è che Venezia - e la sua arte gastronomica - ebbe, e ha, influssi di chiara derivazione levantina, nel delicato equilibrio tra dolce ed aspro, con olio e aceto, Spezie, e frutta secca di cui il prelibato saor è testimonianza indiscussa del “sapore d’Oriente” nelle lagune.
Michela Dal Borgo
1100 - 1200 - - rev. 0.1.34